Da oltre due anni un’accusa infamante tormenta la vita di Andrea Bulgarella, imprenditore trapanese a capo di uno dei più importanti gruppi alberghieri italiani. E’ stato lui, dopo essere passato per un duro scontro con il padre, a trasformare l’impresa familiare di costruzione di strade – fondata nel 1902 dal nonno – in un gruppo da 1.700 dipendenti specializzato in alberghi, resort e recupero di edifici storici, presente in tutta la Penisola, da nord a sud. Dall’hotel Misurina, vicino a Cortina, alla Tonnara di Bonagia Valderice, vicino a Trapani, con una forte concentrazione in Toscana. Centoquattordici anni di storia che ora rischiano di essere spazzati via da un’accusa di mafia che, dopo essere stata avanzata e bocciata dalla magistratura, continua a essere alimentata con furore dalla stampa.
L’8 ottobre 2015, Bulgarella subisce perquisizioni di massa in tutti i suoi uffici e il sequestro dei documenti legati all’attività del suo gruppo. Scopre, così, di essere indagato dalla procura di Firenze per riciclaggio e truffa, con l’aggravante del favoreggiamento a Cosa nostra, in un’inchiesta che travolge altre dieci persone, tra cui il vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona.
L’accusa rivoltagli dalla direzione distrettuale antimafia fiorentina appare fin da subito tanto grave quanto contraddittoria: gli inquirenti accusano Bulgarella, da un lato, di aver impiegato nelle sue attività, fin dagli anni 90, “ingenti capitali” accumulati con il favore della mafia trapanese facente capo al super latitante Messina Denaro e, dall’altro, di aver stretto con numerosi dirigenti di banca “rapporti privilegiati” per ottenere il credito e risolvere presunti guai finanziari. Ma perché un imprenditore accusato di essere legato alla mafia dovrebbe, allo stesso tempo, investire ingenti capitali mafiosi e mettere in atto reati finanziari per rimediare alle difficoltà economiche? Questo i magistrati non lo spiegano, convinti di essere riusciti a individuare, dai loro uffici che si affacciano sull’Arno, il caso di mafia del decennio che sarebbe sfuggito persino alle toghe siciliane da sempre impegnate contro Cosa nostra.
“Io mafioso? – commenta furente Bulgarella in un’intervista al Foglio – Io negli anni 80-90, quando c’era la mafia vera, combattevo, denunciavo e assumevo solo figli di carabinieri, mentre tutti tacevano come conigli. Io nel 1996 sono dovuto fuggire dalla Sicilia perché mi bruciavano i cantieri”. Negli atti d’indagine, i pm fanno discendere un supposto collegamento tra Bulgarella e Messina Denaro dal fatto che tra le ditte fornitrici del gruppo alberghiero ci fosse quella di Luca Bellomo, imprenditore sposato con la nipote del boss latitante. “Non ho mai avuto contatti diretti con Bellomo – spiega l’imprenditore trapanese – ma solo rapporti commerciali con la Schonuber Franchi, azienda di cui Bellomo aveva la rappresentanza. E infatti le fatture venivano rilasciate dal legale rappresentante della Schonuber, non da Bellomo. Negli atti d’indagine, invece, si lascia intendere che i circa 500 mila euro di forniture commissionate all’azienda, siano soldi andati a Bellomo. Secondo la logica degli investigatori, tutti quelli che hanno comprato prodotti Schonuber attraverso la mediazione del loro rappresentante Bellomo sarebbero quindi in collegamento indiretto con Matteo Messina Denaro?”.
Il riferimento, però, al boss latitante e il coinvolgimento di Unicredit fanno balzare la vicenda alle cronache nazionali. Basta questo per fornire solennità e certezza a un’inchiesta ai tempi dell’antimafia fatta di allusioni e prime pagine. Nonostante tre anni di intercettazioni, l’unico provvedimento cautelare che la procura di Firenze – con il consenso del giudice delle indagini preliminari – riesce ad adottare nei confronti di Bulgarella è il sequestro dei documenti. E ventuno giorni dopo il castello accusatorio crolla clamorosamente di fronte al Tribunale del riesame, che annulla il decreto di sequestro. Per i giudici non sussiste neanche il fumus dei reati per cui la procura stava indagando: quelli che per il gip erano “gravissimi indizi del reato di reimpiego di capitali illeciti”, per il Riesame non hanno neppure la consistenza di sospetti. Secondo i giudici, inoltre, il vasto materiale raccolto dai carabinieri del Ros non dimostra la vicinanza di Bulgarella a Cosa nostra, bensì il suo rifiuto a piegarsi alle richieste della cosca. “Nelle conversazioni intercettate, i mafiosi mi definivano ‘lo sbirro’ – racconta Bulgarella – perché nella mia vita non mi sono mai piegato ai loro ricatti e, anzi, li ho denunciati. Dai loro dialoghi è anche emersa più volte l’ipotesi di uccidermi. Non l’hanno fatto, forse perché sono stato sempre troppo visibile e amato nella mia città”.
Il flop dei procuratori antimafia fiorentini trova conferma anche in Corte di Cassazione, dove è persino il procuratore generale, cioè il rappresentante dell’accusa, a chiedere il rigetto del ricorso dei magistrati contro la bocciatura del Riesame, affermando che “l’ipotesi accusatoria appare talmente in contrasto con le emergenze procedimentali da non potere essere neanche ipotizzata in astratto”.
Durante questo limbo giudiziario, Bulgarella ha vissuto l’inferno sui giornali. Il Fatto Quotidiano, ad esempio, lo ha definito prima “il costruttore che aiuta Messina Denaro” e poi “il fiancheggiatore” del capo mafioso. Repubblica ha parlato di “relazioni pericolose del re degli alberghi siciliani”. Chi deciderebbe di fare affari con un uomo dipinto come l’intermediario della mafia? Nessuno. E infatti i danni economici della vicenda sull’attività imprenditoriale di Bulgarella sono stati enormi: “Le banche mi hanno allontanato e hanno tagliato il credito. I cantieri hanno rischiato di chiudere. Ho dovuto svendere i miei beni pur di recuperare le risorse e pagare lo stipendio ai miei operai. Lavoro per difendere i miei uomini. I media mi hanno massacrato, pensi che a dicembre il consulente di un gruppo finanziario di Londra che stava valutando l’ipotesi di coinvolgermi in un’operazione immobiliare mi ha detto: ‘Bulgarella, purtroppo hanno visto su Internet la sua storia e non se la sentono’. Questa è l’Italia. Noi siciliani che lavoriamo siamo carne da macello e se c’è chi, come me, ha il coraggio di parlare viene distrutto”.