La Corte d’appello di Torino ha assolto “perché il fatto non sussiste” i fratelli Carlo De Benedetti e Franco Debenedetti e gli altri undici imputati, tra cui l’ex ministro Corrado Passera, nel processo per le morti da amianto all’Olivetti di Ivrea. In primo grado i fratelli De Benedetti erano stati condannati a 5 anni e 2 mesi per i reati di omicidio colposo e lesioni colpose mentre Passera a un anno e 11 mesi.
Oltre i familiari delle vittime, si costituirono parte civile sigle come Inail e Fiom-Cgil, il Comune di Ivrea e la Città metropolitana di Torino. La tesi dell’accusa verte sul fatto che i vertici dell’azienda erano a conoscenza delle proprietà cancerogene dei materiali usati e – a differenza di quanto dichiarato dalla difesa – li avrebbero utilizzati anche dopo il 1981. La Procura ha dunque cercato di dimostrare la validità della tesi scientifica secondo cui l’esposizione prolungata all’amianto aumenta il rischio di malattia. Ma i giudici della corte d’appello hanno deciso di rigettare le istanze dei pm (che avevano richiesto anche un inasprimento delle pene), assolvendo tutti «perché il fatto non sussiste».
Secondo il legale di Franco De Benedetti, Alberto Mittone, «processi come quello di oggi si basano su leggi scientifiche. Nel corso del tempo l’elaborazione di questi principi scientifici muta e di conseguenza quello che qualche anno fa poteva essere sostenuto come un principio per condannare oggi non lo è più». «La nostra posizione – ha spiegato l’avvocato – era quella di fornire a questa corte nuove acquisizioni scientifiche, utilizzate anche in diverse pronunce della Cassazione». Seguendo gli ultimi indirizzi in campo medico, infatti, la malattia in questione si scatenerebbe già durante la prima esposizione. «Non può essere responsabile Franco Debenedetti – sostiene il legale – che è intervenuto nel ’78 rispetto a lavoratori che hanno cominciato a lavorare negli anni Sessanta negli stessi stabilimenti». «Un altro principio molto discusso nella comunità è quello dell’effetto acceleratore, ossia se la continua esposizione possa aggravare le condizioni di salute dell’esposto. Alcuni dicono di sì, altri di no – prosegue il legale – ma dal momento che nel processo penale si può porre alla base di una condanna soltanto un principio accolto da tutti gli esperti e la stessa Cassazione dice che questo non lo è, non può essere posto a base di una sentenza di condanna».
Si attende adesso il deposito della sentenza che avverrà entro 60 giorni.