di Luigi Ferrarella (Corriere della Sera, 4 aprile 2018)
Sorriso che ti passa o smorfia che ti intristisce? Dipende. Dipende da quale autorità giudiziaria sequestra o dissequestra quale tipo di «faccetta» in quella che in giro per l’Italia sta diventando una buffa (ma serissima per le implicazioni economiche) guerra delle «emoticons», cioè dei segni iconici variamente espressivi di stati d’animo di gioia o rabbia, pianto o amore, dolore o meraviglia.
La mini-telenovela inizia a cavallo tra fine 2017 e inizio 2018, quando alcuni Comandi territoriali della Guardia di Finanza, d’intesa con le competenti Procure (soprattutto nel Centro Italia), iniziano a sequestrare d’urgenza presso i commercianti al dettaglio molte migliaia di oggetti per l’asserita contraffazione delle «emoticons» stampigliate su magliette, giocattoli, cuscini, bicchieri, tazzine, palline di gomma e palloni da gioco, peluche, salvadanai, calamite e gadget vari.
A commercializzare questi prodotti è un colosso tedesco della distribuzione, «Out of the Blue», da 30 anni fra i maggiori esportatori europei di articoli da regalo-scherzi-gadget, titolare di un marchio denominato «Emotion».
Il gruppo obietta che la riproduzione in varie forme degli stati d’animo avrebbe carattere solo descrittivo e generico, sicché segni privi di requisiti di novità e di capacità distintiva non sarebbero tutelabili tramite la registrazione di un marchio: al punto che esiste sì una pluralità di marchi riportanti la dicitura «Emoticons» e registrati sulle più disparate categorie di prodotti, ma soltanto laddove la rappresentazione di uno stato d’animo consista in una peculiare combinazione di forme grafiche, stilemi, colori.
Questa istanza di dissequestro, presentata dall’avvocato Antonio Bana, è accolta dal Tribunale del Riesame di Reggio Emilia, al cui collegio giudicante «non è dato comprendere» sulla base di quali criteri il marchio impresso sui prodotti sequestrati «sia stato stimato “presumibilmente contraffatto”», visto che «non risulta individuato il marchio genuino cui fare riferimento nel giudizio di comparazione, né il relativo titolare».
Anzi, e ancor più alla radice, i giudici emiliani ritengono i prodotti in sequestro «del tutto sprovvisti di segni distintivi in qualche misura suscettibili di confronto per similitudine con quelli oggetto di privativa industriale registrata». E adesso bisognerà vedere cosa succederà a Rimini e Ancona, dove analoghe istanze di dissequestro attendono di essere discusse dai Tribunali del Riesame.