“La storia di Silvio ci dice che dobbiamo fare la riforma della giustizia”. Non si riferiva a Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, quando alla Leopolda del 2013 pronunciava queste parole, ma al fondatore e amministratore di Fastweb Silvio Scaglia, vittima del più noto caso di ingiustizia della recente storia italiana.
Arrestato nel febbraio 2010 per associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale, nell’ambito dell’inchiesta che ha visti coinvolti Fastweb e Telecom Italia Sparkle, Scaglia ha trascorso tre mesi nel carcere di Rebibbia e nove mesi ai domiciliari prima di veder riconosciuta, sia in primo grado nel 2013 che in appello lo scorso settembre, la propria innocenza dai giudici romani. Assolte, con lui, altre sette persone, tra cui l’ex amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle, Stefano Mazzitelli, e l’ex direttore finanziario di Fastweb, Mario Rossetti, finite con Scaglia nel girone infernale del processo mediatico-giudiziario. Per tre anni, mentre sui giornali italiani (e di rimbalzo anche internazionali) venivano descritti come dei delinquenti accertati, avevano tutti provato – invano – a spiegare che le operazioni di riciclaggio internazionale e di evasione fiscale per le quali erano accusati non li vedevano coinvolti nel ruolo di artefici, bensì di vittime, come accertato poi dai giudici.
Per oltre tre anni, le persone coinvolte sono state accusate ingiustamente, si sono viste negare l’esercizio dei più basilari diritti di difesa e hanno assistito alla distruzione delle proprie carriere professionali, delle proprie famiglie, della reputazione e della dignità personale, sotto i colpi dell’abuso della carcerazione preventiva. Scaglia, che prima di essere arrestato aveva deciso – forse ingenuamente – di dare fiducia alla giustizia italiana, tornando nel nostro Paese dall’estero con un jet privato (a sue spese) per chiarire la propria posizione, ha raccontato la sua esperienza in carcere e di come era finito, nel giro di due giorni, dal godersi una vacanza ai Caraibi a cucinarsi il cibo nel bagno della sua cella, tra il lavandino e il cesso alla turca.
Mario Rossetti, che ha trascorso tre mesi e mezzo in carcere (tra San Vittore e Rebibbia) e altri otto mesi agli arresti domiciliari prima di essere assolto, ha deciso di pubblicare un libro per raccontare la sua storia. Il titolo, “Io non avevo l’avvocato”, serve a ricordare che il rischio di finire schiacciati dalla malagiustizia non è lontano come si potrebbe immaginare, ma riguarda tutti, soprattutto le persone che non hanno “la più pallida idea di cosa significhi avere a che fare con la giustizia”, e che subendo un arresto alle cinque del mattino, come Rosetti, non saprebbero neanche quale avvocato chiamare.
Restano, sullo sfondo dei drammi umani, gli ingenti danni economici provocati dall’inchiesta non solo sulle persone (Scaglia ha calcolato in due-tre milioni di euro i costi sostenuti per i suoi legali, il blog aperto per informare i cittadini e i viaggi), ma anche sull’intera economia del nostro Paese, che allora vedeva in Fastweb una delle aziende più all’avanguardia nel settore delle telecomunicazioni a livello internazionale: “L’inchiesta a momenti provocava la chiusura dell’azienda”, ha dichiarato Scaglia in un’intervista a Libero all’indomani dell’assoluzione: “Inchieste come questa generano dentro le aziende shock fortissimi, traumatici. Sono quasi mortali soprattutto in chi opera nel settore delle tecnologie più avanzate dove i tempi di progettazione sono lunghi, ma quelli di realizzazione devono essere rapidissimi e fluidi. Fastweb era in quel momento una delle realtà più avanzate dal punto di vista tecnologico e il progetto che stavamo dispiegando e cioè l’operare su fibra ottica per le interconnessioni, per la trasmissione dati e la telefonia richiedeva che il lavoro procedesse spedito. Quell’inchiesta ha provocato un contraccolpo fortissimo. Ricordo che il socio svizzero, importantissimo, rimase shoccato, non capiva, era impaurito. Questo avrebbe potuto determinare la fine dell’azienda”.