È arrivata questa mattina la richiesta di archiviazione per Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, nell’ambito dell’inchiesta Consip. L’accusa era quella di traffico di influenze, ma nella richiesta del pm si leggerebbe adesso l’ipotesi di millantato credito. Secondo gli inquirenti, il padre dell’ex presidente del Consiglio non ha avuto un ruolo attivo nei fatti oggetto d’inchiesta. Nei confronti di Renzi non sono quindi emersi elementi sufficienti a dimostrare la sua conoscenza e partecipazione nell’attività illecita dell’imprenditore Carlo Russo. Renzi, infine, secondo quanto accertato dai magistrati romani, ha effettivamente incontrato l’imprenditore Alfredo Romeo ma nel 2015 a Firenze, un periodo ritenuto temporalmente troppo lontano rispetto alla vicenda.
Matteo Renzi ha commentato così la richiesta di archiviazione: «Sono mesi che ripeto il tempo è galantuomo. Sui finti scandali, sulle vere diffamazioni, sui numeri dell’economia. Oggi lo ribadisco con ancora più forza: nessun risarcimento potrà compensare quanto persone innocenti hanno dovuto subire. Ma il tempo è galantuomo, oggi più che mai». Secondo i controlli dei pm di Roma, infatti, i carabinieri che hanno seguito le indagini per conto del magistrato che aveva avviato l’indagine, Henry John Woodcock, avrebbero manipolato le prove in loro possesso per incastrare Tiziano Renzi e colpire indirettamente l’allora premier Matteo.
«Questi ultimi giorni – ha spiegato Federico Bagattini, avvocato di Tiziano Renzi – hanno dimostrato che il tempo è galantuomo, prima il riconoscimento del risarcimento nel danno a titolo di diffamazione, ora la richiesta di archiviazione del procedimento così detto “Consip”». «Alla soddisfazione professionale per l’esito, del resto ancora da confermare trattandosi solo di richiesta di archiviazione – ha precisato il legale – si unisce quella personale da parte del dottor Tiziano Renzi, che risulta, tuttavia, menomata dalla considerazione che la campagna subita negli ultimi due anni abbia prodotto gravi e irreversibili danni sul piano personale, familiare ed economico».
L’inchiesta tiene banco tra le cronache nazionali da due anni, da quando iniziarono le indagini. Da allora, gli inquirenti hanno scoperto falsi “confezionati” da alcuni carabinieri, fughe di notizie, violazioni del segreto d’ufficio. Un avviso di conclusione delle indagini per rivelazione del segreto e falso – infatti – è stato recapitato anche all’ex maggiore del Noe, Gian Paolo Scafarto, accusato inoltre di depistaggio assieme all’ex colonello dell’Arma, Alessandro Sessa.
In particolare, Scafarto (dallo scorso luglio assessore alla Sicurezza e alla legalità del Comune di Castellammare di Stabia) dovrà far fronte a ben sei episodi illeciti. Stando all’avviso di conclusione delle indagini, l’ex maggiore deve difendersi da tre contestazioni di falso, da due di rivelazione di segreto d’ufficio e da una di depistaggio. In base al capo di imputazione sarebbe stato lui ad avere girato al “Fatto Quotidiano” «il contenuto delle dichiarazioni rese, quali persone informate dei fatti, da Luigi Marroni e Luigi Ferrara» nell’ambito dell’inchiesta all’epoca condotta dai pm di Napoli nonché l’iscrizione nel registro degli indagati del generale Tullio Del Sette, «notizia poi pubblicata il 22 dicembre del 2016». Scafarto, poi, almeno fino al marzo del 2017, avrebbe passato a colleghi del Noe poi trasferiti all’Aise atti coperti dal segreto investigativo tra cui «alcune trascrizioni di intercettazioni, l’esito di servizi di pedinamenti e l’informativa del febbraio del 2017», depositata alla Procura di Roma. Tra gli episodi di falso c’è quello riferito all’informativa consegnata ai pm di piazzale Clodio il 9 gennaio del 2017, sulla base di una conversazione intercettata negli uffici della Romeo Gestioni, nella quale attribuisce ad Alfredo Romeo e non a Italo Bocchino, che effettivamente la pronunciò, la frase «…Renzi, l’ultima volta che l’ho incontrato», con il chiaro obiettivo di «inchiodare Tiziano Renzi alle sue responsabilità». Per quanto riguarda l’accusa di depistaggio, infine, Scafarto, che il 10 maggio 2017 aveva subito il sequestro del proprio cellulare da parte dei magistrati, «su richiesta e istigazione di Sessa (suo superiore, ndr) e al fine di non rendere possibile ricostruire le chat Whatsapp, provvedeva a disinstallare sul cellulare di Sessa la suddetta applicazione».