La lettera di Verdini a Calabresi contro le “dimenticanze” di Repubblica

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Il suo giornale ha usato politicamente una vicenda giudiziaria, senza alcun rispetto della presunzione di innocenza. In un crescendo rossiniano mi ha dipinto per giorni, settimane, mesi ed anni come un autentico mostro di Firenze circondato, guarda caso, da compagni di merende. Eppure, sarebbe bastato seguire qualche udienza di due anni di dibattimento, farsi un’idea diversa. Ma sono un uomo di mondo, e so da tempo che, non solo nei miei confronti, per una inveterata abitudine della stampa italiana le accuse delle Procure diventano sentenze preventive, anzi definitive, di condanna, e i processi si svolgono sui giornali prima che nelle aule di tribunale. Questa è purtroppo la regola, e non mi scandalizzo. Ma, caro direttore, quello che invece mi indigna è che oggi sul suo quotidiano non ho trovato una sola riga sulla mia assoluzione dall’infamante accusa di aver fatto parte attiva delle trame di una loggia segreta”. E’ il cuore della lettera aperta scritta da Denis Verdini al direttore de ‘La Repubblica’, Mario Calabresi, sulla mancata pubblicazione sul quotidiano della notizia della sua assoluzione dall’accusa di far parte dell’associazione segreta “P3”.

 

Riportiamo il testo completo della lettera di Verdini a Calabresi:

Caro Direttore,
non è mia consuetudine scrivere ai giornali. Ho fatto un’eccezione con Lei qualche tempo fa perché in un articolo de La Repubblica mi si definiva come il Mefistofele della politica italiana. Ricorderà che considerai quell’appellativo quasi come un apprezzamento. Leggo da sempre il giornale da Lei diretto, dal lontano ‘76, e ne ho necessariamente intensificato la lettura dal 2010 in poi, da quando cioè, a causa dell’inchiesta aperta dalla Procura di Roma sulla P3, mi avete dedicato innumerevoli articoli, nell’ordine di diverse centinaia, definendomi in variegati modi, di fronte ai quali lo stesso Mefistofele sarebbe impallidito. Mi era già parso singolare, dopo questo profluvio di articoli nella fase istruttoria, che nessun cronista de la Repubblica avesse poi assistito a una sola udienza del processo, avesse ascoltato le ragioni della difesa. Ma tant’è.

In compenso mi consenta di ricordare qualche titolo del suo giornale: “Verdini, nascosti conflitti d’interessi da 60 milioni”; “Verdini, quella fitta rete di relazioni pericolose”; “Il vertice segreto a casa Verdini”; “Ecco tutti i segreti del tesoro di Verdini”. E poi, anche autorevolissimi editorialisti si sono cimentati nel descrivere con incrollabile certezza le mie malefatte di adepto di una loggia segreta che tramava contro lo Stato e le sue istituzioni. Francesco Merlo, ad esempio, scriveva parlando della conferenza stampa in cui cercai di motivare le ragioni della mia difesa davanti ad accuse tanto gravi: “Mai si era vista una conferenza stampa più losca di quella messa in scena da Verdini… Ecco il punto: Verdini fa esattamente quello che ti aspetti da un colpevole”… E Massimo Giannini, in un saggio sulla “metastasi del potere” si dilungava sulle “cene organizzate con i compagni di merende per spartire gli affari, condizionare i giudici della Consulta, fabbricare falsi dossier contro gli avversari…”. Infine, ho riletto con interesse un titolo che diceva testualmente: “P3, a rischio la maggioranza in Parlamento”, palese dimostrazione dei risvolti squisitamente politici dell’inchiesta in questione.

Il Suo giornale ha usato politicamente una vicenda giudiziaria, senza alcun rispetto della presunzione di innocenza. In un crescendo rossiniano mi ha dipinto per giorni, settimane, mesi ed anni come un autentico mostro di Firenze circondato, guarda caso, da compagni di merende. Eppure, sarebbe bastato seguire qualche udienza di due anni di dibattimento, farsi un’idea diversa. Ma sono un uomo di mondo, e so da tempo che, non solo nei miei confronti, per una inveterata abitudine della stampa italiana le accuse delle Procure diventano sentenze preventive, anzi definitive, di condanna, e i processi si svolgono sui giornali prima che nelle aule di tribunale. Questa è purtroppo la regola, e non mi scandalizzo.

Ma, caro Direttore, quello che invece mi indigna è che oggi sul suo quotidiano non ho trovato una sola riga sulla mia assoluzione dall’infamante accusa di aver fatto parte attiva delle trame di una loggia segreta. È stato riconosciuto da una sentenza che avete scritto una montagna di spazzatura e non avete avuto il coraggio di scrivere che io con la P3 non c’entro nulla e che – semmai fosse esistita – è stata composta da tre signori, uno dei quali peraltro deceduto. Credevo di avere il diritto di leggerlo su un quotidiano che ha speso fiumi di inchiostro quando si trattava di descrivere minuziosamente, con articoli e commenti, le accuse che mi venivano rivolte e che usava quelle accuse per fare politica. Credevo che Voi aveste il dovere di farlo.

Scrivo questo a Lei, e lo farò anche con altri direttori che se la sono cavata confinando la notizia della mia assoluzione in un trafiletto. Mi chiedo che modo sia questo di fare giornalismo: non ricoprendo più un ruolo pubblico mi permetto perfino, pensi, di essere indignato. Lei sa perfettamente che l’inchiesta sulla P3 ha condizionato in modo decisivo, molto più degli altri processi che riguardavano soltanto le mie precedenti attività, la mia vita politica fino a decretarne surrettiziamente la fine. E dunque, è semplicemente inaccettabile ignorare, dopo anni e anni di fango sparso evidentemente sbagliando, un fatto di cronaca che non era solo giudiziaria ma anche, appunto, “politica”. Mi appello al rispetto che dovrebbe essere dovuto non alla mia persona, ma a chiunque si trovi a dover fronteggiare il meccanismo micidiale del circuito mediatico-giudiziario. Considero quanto accaduto una vergogna inaccettabile. E da libero cittadino, da quasi ex senatore, non posso non rilevarlo.

Denis Verdini